C’è chi in quel giorno ci tiene a ricordare quanto ancora in termini di parità di genere il nostro Paese vada piano e poco lontano e chi, pochi ma sempre troppi, parla di retorica femminista. C’è chi, un po’ in buona fede, un po’ perché legato a una visione superata, l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, si prepara a scrivere sui social che le donne vanno celebrate per la loro dolcezza, il loro sacrificio o, immancabilmente, per la loro capacità di essere madri.
Ecco, no.
Le donne, è evidente, non sono creature mitologiche da incensare un giorno all’anno, né madri da santificare. Sono per l’appunto donne, poi, forse, se vogliono, anche madri o mogli, oppure no. E come donne hanno diritto a un salario adeguato, a condizioni di lavoro dignitose, alla libertà di scegliere la propria vita senza discriminazioni. Hanno diritto di vivere senza la paura della violenza, a contare nei luoghi dove si decide, a essere ascoltate e rispettate.
Nel nostro Paese, nonostante le donne siano, in media, più istruite e qualificate rispetto agli uomini, continuano a subire un accesso limitato all’occupazione stabile, salari più bassi e minori opportunità di carriera. Un’ingiustizia sociale che non sembra arrestarsi e a cui si accompagna l’incapacità di visione politica ed economica che continua a privarsi di competenze fondamentali per lo sviluppo.
Secondo i dati del Rendiconto di genere 2024 dell’INPS, il divario occupazionale tra uomini e donne in Italia è ancora di 17 punti percentuali, con una differenza di 26 punti nelle assunzioni a tempo indeterminato. Solo il 21% delle donne con contratti a tempo indeterminato raggiunge posizioni dirigenziali, contro il 79% degli uomini, e solo il 32,4% ottiene un ruolo da quadro, rispetto al 67,6% degli uomini. Inoltre, oltre il 40% delle donne tra i 25 e i 34 anni è sovraqualificato rispetto al ruolo che ricopre, evidenziando un mancato riconoscimento delle competenze femminili e un problema culturale radicato nel mercato del lavoro.
Le donne continuano a sostenere il peso maggiore del lavoro di cura familiare. Nel 2023, hanno usufruito di 14,4 milioni di giornate di congedo parentale, a fronte di appena 2,1 milioni richieste dagli uomini, evidenziando un divario ancora profondo nella condivisione delle responsabilità genitoriali. Inoltre, l’accesso agli asili nido resta inadeguato su gran parte del territorio nazionale: solo Umbria, Emilia-Romagna e Valle d’Aosta riescono a garantire o a sfiorare l’obiettivo di 45 posti disponibili ogni 100 bambini tra 0 e 2 anni.
Le disuguaglianze si riflettono poi anche sulle pensioni: le lavoratrici percepiscono infatti assegni mediamente inferiori del 25% rispetto ai colleghi uomini anche a causa di una maggiore discontinuità lavorativa che si ripercuote inevitabilmente sul percorso professionale.
Mentre in Italia il congedo di paternità si limita ai 10 giorni minimi previsti dalla direttiva europea, nella vicina Spagna, dal 2021, il congedo di paternità è di16 settimane non trasferibili e retribuite al 100%.
Nel frattempo, in patria, il Governo invece di affrontare il problema con misure strutturali, si limita a interventi sporadici e a incentivi alla natalità, senza considerare la child penalty, ovvero la penalizzazione salariale e di carriera che le donne subiscono nel mondo del lavoro dopo la maternità e le forme di part-time involontario cui sono soggette prevalentemente le donne, perché in mancanza di servizi, su di loro grava ancora prepotentemente il lavoro di cura.
Se da un lato, molte donne diventate madri hanno difficoltà di accesso al lavoro, dall’altro il depotenziamento della misura Opzione donna, con l’ultima Legge di bilancio, ha reso il pensionamento anticipato un miraggio, costringendo molte lavoratrici a restare in servizio o a non fare proprio domanda sapendo di essere state tagliate fuori.
In Umbria, stando ai dati Istat del 2023, il tasso di occupazione femminile si attesta al 58,8%, un valore nettamente inferiore rispetto alla media regionale complessiva del 66,5% e con una differenza marcata tra territori. A Perugia l’occupazione femminile raggiunge il 61,5%, mentre a Terni si attesta al 50,5%, evidenziando un gap di oltre 11 punti percentuali tra le due province.
Le difficoltà di accesso e permanenza nel mondo del lavoro per le donne emergono anche dai dati sulla disoccupazione. Sebbene il tasso complessivo di disoccupazione in Umbria sia del 6%, il dato femminile rimane elevato. A Perugia, la disoccupazione femminile raggiunge il 7,8%, superando di 3,7 punti percentuali quella maschile (4,1%), mentre a Terni si attesta all’8,4%, con una differenza di 3,2 punti rispetto al tasso maschile del 5,2%. Questi dati confermano un mercato del lavoro ancora caratterizzato da forti squilibri di genere e da un accesso alle opportunità professionali meno inclusivo.
Dati che aiutano a comprendere e a chiedersi perché ancora oggi le donne guadagnano meno, perché fanno più fatica a fare carriera, perché devono scegliere tra lavoro e famiglia. Aiutano a rafforzare richieste e rivendicazioni e a pretendere che si intervenga, con leggi, politiche e azioni concrete. Servono contratti stabili, congedi paritari, più scuole e asili, più tempo per vivere. E non basta dire che quei diritti esistono sulla carta: bisogna verificare se sono reali, se vengono rispettati e soprattutto se sono conosciuti. Perché la parità formale non sempre corrisponde a una parità sostanziale.
Per questo è necessario un cambiamento culturale, tanto in famiglia quanto nel lavoro, portando a galla le diverse forme di discriminazione, gli stereotipi e le ingiustizie, e farlo insieme, affinché sia possibile identificarsi, acquisire consapevolezza, condividere e far sentire la propria voce.
Redazione Nuove Ri-Generazioni Umbria